Il comunismo è e rimane l'unica prospettiva di superamento positivo della società capitalistica. Ma quest'ultima, malgrado le sue traversie, pare divenuta un orizzonte insuperabile, e le forze protese al suo abbattimento sono oggi ridotte alla clandestinità e alla dispersione, se non al disorientamento. L'epoca del movimento operaio tradizionale, delle transizioni socialiste e dei loro programmi si è da tempo conclusa. Il patrimonio delle lotte e delle correnti teoriche del passato richiede un riesame profondo per separare ciò che è vivo da ciò che è morto. Il rapporto intercorrente tra le lotte quotidiane del proletariato, i movimenti interclassisti di massa dell'ultimo decennio e la rottura rivoluzionaria possibile appare più enigmatico che mai. La teoria comunista richiede nuovi sviluppi, per essere restaurata nelle sue funzioni. La necessità di affrontare questi nodi ci interpella in prima persona, come dovrebbe interpellare tutti i sostenitori del «movimento reale che abolisce lo stato di cose presente». I nostri mezzi sono a misura alle nostre forze: modesti. Impossibile in queste condizioni pretendere di essere i fautori unici e infallibili di una rifondazione teorica che arriverà a maturità solo in un futuro non prossimo. Ma è solo iniziando a camminare che si cominciano a tracciare strade percorribili.

lunedì 26 dicembre 2011

Sulla politica

Riflessioni intorno allo scioglimento della Ligue Communiste e di Ordre Nouveau

Jean Barrot (1973)

«La loro intelligenza politica celava loro la radice della loro miseria sociale, falsava in loro la comprensione dei loro autentici scopi; è così che la loro intelligenza politica ingannava il loro istinto sociale». (Karl Marx, 1844).

Ogni sistema sociale è allo stesso tempo una forza personale e impersonale. Se si dimentica il primo termine, la società diventa solo un’entità al di sopra dei rapporti sociali; se si dimentica il secondo, non è possibile alcuna visione d’insieme, e non se ne comprende la dinamica. Inoltre, il capitale è contemporaneamente concorrenza e solidarietà, contraddizione e unità. Il suo movimento è al contempo centrifugo e centripeto. Il Libro III de Il Capitale non ha lo scopo di tappare una falla per motivi di semplice coerenza scientifica: Marx vi studia il «processo d’insieme» al fine di mettere in luce questo duplice movimento. Si è detto, giustamente, che Il Capitale non è un’opera di economia, ma una critica della scienza economica in quanto studio separato di un’attività separata. Infatti, non insiste sul livello economico se non al fine di situarlo in un insieme più vasto, di cui lo studio dello Stato e del mercato mondiale avrebbe dovuto costituire la conclusione, che Marx non ebbe né il tempo né la forza di elaborare (sia per ragioni materiali, sia perché non ne discerneva tutta la portata)[1]. Eppure, è a partire dallo studio del capitale, e dunque del Capitale, che si può affrontare la politica, riprendendo a) l’inizio del Libro I, e b) la sintesi parziale costituita dalle prime sezioni del Libro III. Uno stesso filo conduttore unisce l’analisi della merce a quella del processo globale del capitale.

Se l’Internationale Situationniste ha parlato di «società dello spettacolo», la prima sezione del Libro I fornisce gli elementi di un tema analogo, a proposito della nozione di rappresentazione. La questione ebraica, Per la critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione, Critica del diritto statuale hegeliano e Glosse critiche in margine all’articolo «Il re di Prussia e la riforma sociale: osservazioni di un Prussiano» avevano abbozzato questa riflessione sulla separazione e sulla politica. La merce è la forma cellulare, l’elemento di base dell’economia del capitale. Ma, in un senso più ampio, il rapporto mercantile è l’archetipo del legame sociale nel mondo capitalista. Una merce si rapporta all'altra non in quanto bene, ma in funzione di ciò che quest'ultimo rappresenta, della quantità di lavoro astratto che vi è cristallizzata. Poco importa il contenuto reale dell’oggetto contro il quale la merce si scambia: a importare è solo ciò di cui esso è il «supporto». Allo stesso modo, gli individui che sono impegnati nello scambio, si guardano senza in realtà vedersi, giacché considerano l’altro solo come un mezzo per accrescere una somma di valore. Inoltre, ciascuno finisce per considerare anche se stesso come il supporto di qualcosa che è altro da sé: il lavoro è un mezzo per guadagnarsi la vita, anziché per viverla. L’attività è un mezzo per accedere a qualcosa d'altro, a qualcosa di esteriore al suo contenuto proprio. E questo «altro» – vedere gli amici, viaggiare, amare etc. – tende a sua volta a comportarsi come la riproduzione di un’immagine della vita, dunque come una rappresentazione che viene imposta dal capitale. Le merci, ma anche coloro che ne sono i possessori, percorrono una galleria di specchi nella quale possono esistere solo contemplandosi.

«Reso estraneo al prodotto del suo lavoro, alla sua attività vitale, al suo essere generico, l’uomo diventa estraneo all’uomo. Quando gli si trova di fronte, è l’altro che è presente davanti a lui. Ciò che è vero circa il rapporto dell’uomo con il suo lavoro, con il prodotto del suo lavoro e con se stesso, è vero circa il suo rapporto con l’altro, così come con il lavoro e l’oggetto del lavoro altrui. In maniera generale, la tesi secondo cui l’uomo è reso estraneo al suo essere generico significa che gli uomini sono resi estranei gli uni agli altri, e che ciascuno è reso estraneo rispetto alla specie umana.»[2]
 
Il rapporto con l’altro non ha valore in quanto tale, ma ha per scopo l’autovalorizzazione, sia essa reale o simbolica. Questo movimento si approfondisce con il passaggio dall’economia mercantile semplice all’economia mercantile capitalista, ma il suo fondamento permane. Quegli uomini mercificati che sono i venditori di forza-lavoro, non si rapportano gli uni agli altri se non in funzione della loro valorizzazione sociale [3]. Ogni merce s’interessa solo al valore di scambio delle altre merci, non al loro valore d’uso; e soprattutto considera il proprio valore d’uso, il proprio stesso essere, solo come supporto del proprio valore di scambio. Si hanno relazioni con gli altri solo per ciò che essi rappresentano, non per ciò che sono. Negli Stati Uniti, dove Marx notava già nel secolo scorso l’indifferenza del lavoratore verso il contenuto del proprio lavoro, l’isolamento degli individui genera una «vita sociale» in cui si presume che il «buon americano» appartenga a diversi club e associazioni, dove di volta in volta impersona il ruolo che ci si attende da lui: buon cristiano, buon cittadino, buon padre etc. A livello individuale, il senso dei propri atti  sfugge: nulla di ciò che faccio ha un legame con la ragione per cui lo faccio. Credo di agire, ma sono in realtà agito dalla società. A livello dei gruppi sociali, una classe, agli occhi dell'altra, è solo il supporto della propria esistenza. Ma in primo luogo, se il valore impone la propria legge, è alla società stessa che sfugge la logica dei propri atti.
Nella misura in cui l’unità è svanita, la società dev’essere riorganizzata, e questa diventa l'attività privilegiata, e persino principale. La gestione diventa il problema, e la decisione il momento privilegiato dell’azione. Siccome l’azione è divisa e frammentata, la decisione se ne distacca e diventa il compito di un apparato, di un’istituzione specializzata. Il potere si costituisce come attività e funzione separata, soltanto perché l’attività sociale è essa stessa separata. Il problema del potere, nell'accezione ristretta del termine, sorge nel momento in cui gli uomini hanno perso il potere di agire e di trasformarsi.
La filosofia greca, cercando di definire un modello di società in cui l’élite si occupi di amministrare il potere, di gestire la società, teorizza e idealizza un’alienazione dolorosa, di cui tenta peraltro il superamento sul piano artistico; ma in entrambi i casi si tratta già di uno sforzo per fondare delle mediazioni, dal momento che la relazione immediata è scomparsa. Non è solo a causa delle lotte di classe che c’è bisogno di una struttura incaricata di mantenere l’unità della società. Più esattamente, la «lotta» di classe non è che un aspetto – l’elemento attivo – di una realtà più vasta. C’è contraddizione tra i gruppi sociali così come tra le attività. La logica mercantile s’impone all’equilibrio sociale. Le minacce che gravano sulla vita del Pianeta ne sono la prova, e confermano ciò che si chiama (unilateralmente) la prospettiva catastrofica del comunismo teorico. Ma il mondo antico conosceva già, seppur in forme diverse, questo problema, e le costruzioni politiche di Platone e Aristotele hanno essenzialmente l’obiettivo di preservare un equilibrio tra le classi, messo in pericolo dallo sviluppo della ricchezza. L’originalità dell’Africa Nera risiede nell'avere tentato a lungo, spesso fino al XIX secolo, di conservare un equilibrio stabile tra a) i resti delle antiche comunità, fondate sui legami di parentela e sulla globalità della vita sociale, e b) lo sviluppo delle attività mercantili. Il mondo nero ha limitato, senza tuttavia poterlo impedire, lo sviluppo della politica in quanto attività specialistica di unificazione nella separazione, e del potere in quanto istituzione preposta a questa funzione.

«Di conseguenza, a partire pressappoco dal 1450, il problema centrale della politica imperiale sta nel bisogno di trovare un equilibrio fra gli interessi delle città – con i loro mercanti, i funzionari e il crescente interesse per l’accumulazione – e gli interessi contrari della campagna, estesamente egualitaria» [4].
 
Le prime tre sezioni del Libro III mostrano il meccanismo d’insieme del capitale. Concorrenza e centralizzazione sono i due momenti del suo movimento. Il processo attraverso il quale si stabilisce un tasso medio di profitto, è anche quello attraverso cui il capitale si organizza come forza sociale, nel mentre si concentra ed elimina gli elementi meno produttivi. Marx parla di un comunismo capitalista [5]. Partita dalla cellula elementare del capitalismo, l’analisi giunge alla sua regolazione generale. La dinamica è duplice. Da una parte, il capitale si unifica tanto economicamente quanto socialmente, dandosi i mezzi per affrontare, a tutti i livelli, sia i suoi concorrenti sia il proletariato. Dall’altra, questa unità può esistere soltanto come tendenza, sintesi sempre da rifare. Vi sono contemporaneamente concentrazione e dispersione.
Anche la politica è duplice nel mondo capitalista. Da un lato, è il capitale stesso ad assicurare sempre più l’unificazione della società. I differenti programmi non sono che varianti di un medesimo programma fondamentale. Da un altro lato, il  perdurare delle difficoltà del capitale fa rinascere i problemi politici, di organizzazione e riorganizzazione della società  – persino negli Stati Uniti [6]. La politica non è morta. La sua integrazione al capitale, conseguenza delle contraddizioni capitaliste, non è sinonimo di scomparsa. Sarebbe altrettanto assurdo affermare il «primato della politica» che negare la sua realtà, vedendovi una semplice ideologia. Ogni teoria che parta dalla politica è sterile, e sfocia in una ricerca del potere: invece di mirare a un cambiamento, anche limitato, dei rapporti sociali, si vuole organizzare gli altri uomini in vista di un qualche fine. A questa separazione se ne accompagna un’altra, interna all’individuo stesso, nel momento in cui si trasforma in militante. Si paragonino i dibattiti tra i gauchistes sulla sessualità con questa lettera di Karl a Jenny Marx:
 
«Io mi sento di nuovo un uomo, perché provo una grande passione, e la molteplicità in cui lo studio e la cultura moderna ci impigliano, e lo scetticismo con cui necessariamente siamo portati a criticare tutte le impressioni soggettive e oggettive, sono fatti apposta per renderci tutti piccoli e deboli e lamentosi e irrisoluti. Ma l’amore non per l’uomo di Feuerbach, non per il metabolismo di Moleschott, non per il proletariato, bensì l’amore per l’amata, per te, fa dell’uomo nuovamente un uomo» [7].
 
Il militante crede di elevarsi al di sopra delle costrizioni sociali mentre ne è vittima a un grado ben più elevato, rispetto al salariato ordinario. Infatti, il militante interiorizza la lacerazione e la spoliazione costitutive dell’uomo moderno. Il militante è il cittadino compiuto. L’uomo normale assume la propria separazione politica solo nel momento in cui partecipa «attivamente» alla politica (elezioni). Il militante ne fa una regola di vita.

«Nell’individuo si mostra cos’è la legge generale: la società civile e lo Stato sono separati. Dunque il cittadino nello Stato e il cittadino come semplice membro della società civile sono egualmente separati. Bisogna dunque ch’egli operi una rottura essenziale con se stesso […]. Il cittadino deve dismettere il suo stato, lo stato civile, lo stato privato, per acquistare significato e attività politici […]» [8].
 
Per contro, identificando politica e capitale, si finisce in un vicolo cieco. Infatti, che cos’è il capitale? Non esiste e non può esistere un capitale universale. Chi dice capitale dice lotta; chi dice lotta dice regolazione periodica delle condizioni di questa lotta. Non si può ridurre la politica al capitale: si può solo sviluppare l’analisi della politica a partire da quella del capitale.
Si può ottenere una visione d’insieme del capitalismo sviluppando i diversi significati della nozione di rappresentazione. Nella rappresentazione intesa come spettacolo, lo scambio, e ancor più lo scambio capitalista, fa vivere gli individui nell’immagine della trasformazione. Anche quando si agisce, non si trasforma più. Nel senso datole da Marx all’inizio del Libro I, beni e persone lavorano solo in vista di altro dal lavoro stesso: si lavora per ciò che il lavoro rappresenta, ovvero il valore. Infine, la società mercantile può vivere solo creando una struttura di totalizzazione; non può esistere come totalità, perché le relazioni sociali che la compongono minacciano di farla esplodere. La totalità costituita dai rapporti economici (cfr. Libro III) esige, a causa delle  contraddizioni che la animano, una struttura incaricata di conservarla. È questa la prova di una lacerazione nel seno della società, così come l’esistenza e il relativo successo terapeutico della psicanalisi attestano la lacerazione interna all’individuo.
È questo il senso della critica di Marx alla teoria hegeliana del diritto: se la società ha bisogno di un elemento che la rappresenti, per essere tale; se non basta a sé medesima, se non può essere se stessa, questa menomazione prova la sua natura profondamente contraddittoria. La società mercantile crea la propria totalità non da se stessa, ma al di là di se stessa. Non che la politica sia esterna alla società: lo Stato rappresenta la società (in tutte le accezioni del verbo «rappresentare»), la simbolizza. E il senso comune non immagina nemmeno una società senza Stato; lo stesso dicasi per i politici, giacché esso dà loro da vivere. Come scriveva «France Nouvelle», organo settimanale centrale del PCF, il 15 maggio 1973: «Ogni Stato è fatto della fatica degli uomini, dei loro sacrifici, delle loro lotte, delle loro realizzazioni». Questo elogio poetico e interessato non deve far dimenticare la realtà dello Stato. Se la società crea lo Stato, e non l’inverso, non ne discende che lo Stato sia un'illusione. La società, e innanzitutto la classe dominante, lo incarica di risolvere problemi affatto reali. La separazione si costituisce in realtà, diventa essa stessa la realtà per eccellenza. La statolatria ridicolizzata da Amadeo Bordiga funziona come il feticismo della merce. Lo Stato viene visto come una cosa, un essere, e non un rapporto. Questa inversione ricalca il rovesciamento che accompagna lo scambio: si vede una creazione dove c’è una mediazione, un soggetto dove c’è un oggetto.
 
«Più lo Stato è potente, più un Paese è dunque politico etc. etc.» [9].

Lo critica rivoluzionaria non disvela l’onnipotenza della politica per rinfacciargliela, bensì al contrario la sua debolezza. Vi vede una forma impotente, il cui contenuto è altrove, e che vive solo della difficoltà della società ad autoconservarsi. Ma la politica non è mistificazione, non è alcunché di inconsistente. Nella misura in cui si cristallizza nello Stato, diventa una forza sociale, e i considerevoli mezzi di repressione a disposizione degli Stati ne attestano la realtà. Ma la tendenza ineluttabile dello Stato contemporaneo a dominare la totalità della vita, è solo una risposta alla crisi del capitale manifestatasi dopo il 1914, sia sul piano economico sia su quello sociale.
La politica non riguarda solo i politici. I politicanti fanno leva sulla tendenza intrinseca all’uomo contemporaneo, all’uomo del capitale, a cercare la verità e la soluzione della sua condizione in un altrove, al di là dei rapporti sociali. Non è per una coincidenza storica che la religione, la filosofia e la politica sono state criticate da Marx simultaneamente o, più precisamente, in un medesimo movimento critico; in ciascuno dei tre casi, ci si trasferisce a un altro livello: invece di trasformare la realtà, la si disloca. I politici servono solo da mediatori tra i rapporti sociali e questa realtà altra che è la regolazione delle contraddizioni. Si costituiscono come gestori della mediazione. Se la gestione operaia è conservatrice perché fa partecipare il salariato al proprio sfruttamento, l’autogestione della politica da parte di tutti è un asservimento ben più profondo.


NOTE:

[1] Vedi il piano di Marx del 1857.
[2] Karl Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, in Opere Complete.
[3] Karl Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, in Opere Complete.
[4] Basil Davidson, La civiltà africana, Einaudi, Torino, 1972, p. 197. Tra crescita dello scambio e sviluppo della politica e dello Stato non si dà né parallelismo evolutivo né automatismo. Non esiste un modello universale di sviluppo lineare delle società. Oltre alla distinzione necessaria tra scambio mercantile e scambio rituale o cerimoniale, esistono società in cui lo scambio è relativamente bloccato, e che tuttavia conoscono un notevole sviluppo statale: per esempio nel modo di produzione asiatico. Ciò che è vero è che la politica si autonomizza solo se il valore si autonomizza, se lo scambio mercantile si estende.
[5]  Karl Marx, Il Capitale, Libro III. Si veda anche il § 4, «La legge del valore», in Jean Barrot, Contributo alla critica della ideologia ultrasinistra, Edizioni G.d.C., Caserta, 1973.
[6] Tale questione fu affrontata, nel 1967, nell’introduzione a un opuscolo di Pouvoir Ouvrier: Impérialisme et bureaucratie face aux révolutions dans le tiers-monde. Si veda anche Paul Mattick, Marx e Keynes, De Donato, Bari, 1972.
[7] Karl Marx a Jenny Marx, 21 giugno 1856, in Opere complete.
[8] Karl Marx, Critica del diritto statuale hegeliano, in Opere complete.
[9] Karl Marx, Glosse critiche in margine all’articolo «Il re di Prussia e la riforma sociale: osservazioni di un Prussiano», in Opere Complete.

[«Le Mouvement Communiste», Parigi, n. 5, ottobre 1973]